Cum-templum, fotografia e poesia
di Mauro Mendula, Sardegna Wanderlust XVI
Come nel medium fotografico la realtà impressa nel frame è per noi appunto mediata da un pentaprisma, uno specchio, un sistema di lenti, una superficie sensibile analogica o digitale, così nella poesia - degna di tale nome - ogni espressione è un prisma, ogni parola uno specchio, ogni pausa un campo infinito.
Fotografare è “scrivere con la luce”, ma vi è anche un valore prismatico della poesia: esso sta nella sua capacità di farsi attraversare dalla Luce, di generare rifrazioni polisemantiche, mai imbrigliabili in letture univoche.
Nella prospettiva speculare del linguaggio fotografico, ciò che si mostra - intrappolato nel fotogramma - s'imprime nella superficie sensibile senza esserne mai pienamente esaurito - semmai vi è annunciato, contratto in un frammento che solo apparentemente genera “evidenze”. Non si può astrarre un fotogramma dal contesto, così come una poesia non può chiudersi ermeticamente in se stessa.
Per questo, un verso o un'immagine, sono come frammenti (frames) che - in quanto tali - non possono che evocare costantemente l'Intero; ad esso rimandano, e da esso traggono linfa vitale, per non rinsecchire come i tralci d'una vite, recisi precocemente: devono contrarre il Massimo nel minimo, farne sintesi, nei limiti della loro natura finita.
Quel che conta in una fotografia è spesso proprio ciò che non è a fuoco o che - per la sua sovrabbondanza - eccede il fotogramma, non può stare “in campo”, non può essere schiacciato su un piano a due dimensioni, non può essere costretto da un solo punto di fuga prospettico, non può essere reso monosemantico. Ciò che resta fuori è quel Tutto senza il quale sarebbe altresì impossibile leggere dentro il frammento.
Così la Poesia: ciò a cui essa allude, sollecita e rimanda - prismaticamente - inabita quei segni e quelle parole, ma sporge costantemente da essi.
Entrambe - fotografia e poesie - sollecitano una lettura su più livelli, che in un movimento verticale e concentrico sappia partire dalla carne, dalla nuda lettera, dalla “pellicola”, dalla “carta” per poi dilatarsi, elevando l'anima, facendosi Icone di un'esperienza condivisa e universale.
A volte basta un “punctum”, come direbbe Roland Barthes, quel particolare che sollecita un guizzo intuitivo tale da renderci capaci di “vedere” specchiato il mondo intero dentro un foglio stampato.
Potremmo dire ciò che Wittgenstein scrisse per il Tractatus: ogni foto, ma anche ogni poesia consta di due parti: ciò che vi è scritto e ciò che non vi è scritto. Questa seconda parte è la più importante.
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