A contemplative view of reality

Mauro Mendula

 

Non esiste una fotografia ingenua, non concettuale. La fotografia è un'immagine di concetti. (Vilém Flusser)

About me

Sono nato nel 1973 ad Olbia. Fin da piccolo mi appassiono di musica ed arti visive, fotografia in primis. Vivo il passaggio dal mezzo analogico a quello digitale alla fine dei miei studi universitari. Laureato in filosofia, da anni approfondisco ‘sul campo’ le implicazioni teoriche e pratiche che la digitalizzazione dell”immagine ha introdotto nell’arte fotografica, con una particolare attenzione alle sue dinamiche sociologiche e culturali. Landscape Photographer e timelapser, educato dalla incontaminata e spesso ruvida bellezza della mia terra nativa, la Sardegna, prediligo panorami che ispirino un certo rapimento estatico e contemplativo, non di rado ambientazioni notturne. Amo riprendere gli stessi luoghi in tempi e luci diverse,nel continuo farsi altro dell’identico che la natura ciclicamente ci propone. Sono Autore finalista del ‘Premio per la qualità creativa in fotografia professionale’ TAU VISUAL, Fotografi Professionisti Italiani, 2009.

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I was born in 1973, in Olbia (Sardinia, Italy). Since my childhood I have always been fascinated by music (I have studied theory and I still play) visual arts, but first of all photography. I lived the switchover to digital from analog at the end of my College. I graduated in Philosophy with a dissertation about the Aesthetic and Mystical experience. For years I have experienced, on the field, the theoretical and practical implications that the digital image has introduced in photographic art. I’m Finalist Author in the Prize for Creative Quality in Professional Photography ‘Tau Visual – Italian Professional Photographers.









MY POINT OF VIEW - IL MIO PUNTO DI FUGA PROSPETTICO

Come il pensiero media su un ‘dato originario’, partendo da esso e ad esso ritornandovi per arricchirlo, così anche il medium fotografico crea una circolarità virtuosa fra ciò che ‘si mostra’ e la sua rappresentazione. Lo sviluppo di una foto (in camera oscura o chiara, non fa differenza) è un po’ come lo sviluppo di un pensiero: entrambi hanno la capacità di ‘astrarre’ una porzione di realtà per illuminarla. Ciò richiede una certa disposizione d’animo che – in primis nel fotografo paesaggista – diventa un vero e proprio habitus. L’atteggiamento di accogliente ‘apertura’ verso il reale – infatti – accomuna spesso lo stile del landscape photographer con quello dell’uomo contemplativo: entrambi lasciano che la realtà si manifesti al loro sguardo in tutta la ricchezza e maestosità di cui essa è capace, senza interferenze, per accoglierla ed esserne testimoni rapiti, in un’esperienza unitiva. A questo si aggiunge un certo spirito d’avventura, quello che spinge il fotografo a far di tutto per trovarsi nel posto giusto al momento giusto, lasciando senza preavviso ogni altra occupazione per inseguire l’istante agognato, un cielo particolare, una bufera improvvisa, un evento astronomico; salvo esser poi colti impreparati nella via del ritorno dal miglior scatto della giornata (o nottata). Il suo ‘tesoro’, duramente conquistato, è il frutto di numerose sortite diurne e notturne – a contemplar le stelle – in compagnia d’una macchina fotografica, laddove s’impara a condivider con gli antichi osservatori del cielo la conoscenza delle costellazioni, la Via Lattea, l’orientamento con la Polare, la direzione dei venti ed il ritmo delle maree. L’alta sensibilità delle moderne fotocamere unita alle lunghe esposizioni (necessarie affinché la flebile luce s’imprima) restituiscono così panorami spesso ai limiti del surreale, nei quali la dilatazione dei tempi e dei movimenti celesti mettono in luce dinamicità inaspettate che paiono rifuggire dalla stasi del fotogramma in cui si trovano invece contratti e congelati.

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As thought reflects an “original fact”, starting from it and returning to enrich it, so does every picture which deserves this name. The development of a photo (in dark or light-room, does not matter) is like the development of a thought: both have the ability to ‘abstract’ a portion of reality to illuminate it. This requires a certain frame of mind that – in the landscape photographer – becomes a real habitus. The welcoming attitude of ‘opening’ towards the real – in fact – makes the landscape photographer like the contemplative man: both allow the reality to manifest itself to their eyes in all its richness and majesty, without interference, for welcome it and be enraptured witnesses, in an unitive experience. This reqrires a certain spirit of adventure, what drives the photographer to do everything possible to be in the right place at the right time, without notice, leaving all other work to pursue the coveted moment, a particular sky, a sudden storm, an astronomical event, only to be caught unprepared in the way back from the best shot of the day (or night). His treasure , hard won, is precisely the result of numerous daily or nightly hikes – to contemplate stars – with a camera, where learn to share with ancestors the knowledge of constellations, the Milky Way, the orientation towards Polaris and the wind direction. The high sensitivity of modern cameras combined with long exposures, often gets surreal results in which the dilation of time and celestial movements reveal unexpected dynamism that seem to shy away from the doldrums in which -instead – are contracts and frozen.

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Cum-templum, fotografia e poesia

Cum-templum, fotografia e poesia di Mauro Mendula, Sardegna Wanderlust XVI Come nel medium fotografico la realtà impressa nel frame è per noi appunto mediata da un pentaprisma, uno specchio, un sistema di lenti, una superficie sensibile analogica o digitale, così nella poesia - degna di tale nome - ogni espressione è un prisma, ogni parola uno specchio, ogni pausa un campo infinito. Fotografare è “scrivere con la luce”, ma vi è anche un valore prismatico della poesia: esso sta nella sua capacità di farsi attraversare dalla Luce, di generare rifrazioni polisemantiche, mai imbrigliabili in letture univoche. Nella prospettiva speculare del linguaggio fotografico, ciò che si mostra - intrappolato nel fotogramma - s'imprime nella superficie sensibile senza esserne mai pienamente esaurito - semmai vi è annunciato, contratto in un frammento che solo apparentemente genera “evidenze”. Non si può astrarre un fotogramma dal contesto, così come una poesia non può chiudersi ermeticamente in se stessa. Per questo, un verso o un'immagine, sono come frammenti (frames) che - in quanto tali - non possono che evocare costantemente l'Intero; ad esso rimandano, e da esso traggono linfa vitale, per non rinsecchire come i tralci d'una vite, recisi precocemente: devono contrarre il Massimo nel minimo, farne sintesi, nei limiti della loro natura finita. Quel che conta in una fotografia è spesso proprio ciò che non è a fuoco o che - per la sua sovrabbondanza - eccede il fotogramma, non può stare “in campo”, non può essere schiacciato su un piano a due dimensioni, non può essere costretto da un solo punto di fuga prospettico, non può essere reso monosemantico. Ciò che resta fuori è quel Tutto senza il quale sarebbe altresì impossibile leggere dentro il frammento. Così la Poesia: ciò a cui essa allude, sollecita e rimanda - prismaticamente - inabita quei segni e quelle parole, ma sporge costantemente da essi. Entrambe - fotografia e poesie - sollecitano una lettura su più livelli, che in un movimento verticale e concentrico sappia partire dalla carne, dalla nuda lettera, dalla “pellicola”, dalla “carta” per poi dilatarsi, elevando l'anima, facendosi Icone di un'esperienza condivisa e universale. A volte basta un “punctum”, come direbbe Roland Barthes, quel particolare che sollecita un guizzo intuitivo tale da renderci capaci di “vedere” specchiato il mondo intero dentro un foglio stampato. Potremmo dire ciò che Wittgenstein scrisse per il Tractatus: ogni foto, ma anche ogni poesia consta di due parti: ciò che vi è scritto e ciò che non vi è scritto. Questa seconda parte è la più importante. Pagina Web '00-Copertina'/ '01'/ '02'/ '03'/

Le Mani al lavoro - Sardegna Wonderlust

Le mani al lavoro Testo e foto di Mauro Mendula Per la tradizione classica, l'agere (praxis) ed il facere (poiesis), ossia l'azione morale e quella produttiva incarnata dal lavoro, hanno entrambe a che fare con le mani. Esse sono, per questo, organum organorum, strumento transitivo per eccellenza, capace di condurre l'orizzonte dell'umano desiderio alle cose stesse, per incontrarle, trasformarle, crearle, imprimendovi una forma – nell'ottica laboriosa dello studio, dell'ingegno e del dono. Solo quel lavoro che, pur esordendo da una incombente finalità vitale di sostentamento, riesca poi a farsi anche deliberato strumento d'arte e di “coltura”, capace cioè di librarsi sopra la schiavitù del bisogno del ponos come oscura fatica che vincola e aliena, potrebbe dare piena dignità alle mani dell'uomo. Se rispettasse infine l'intima vocazione di ciascuno, allora quella esteriore maestria divenuta mestiere, coltivata magari in una discreta bottega artigiana, rivelerebbe attitudini nascoste e sottili dell'intelletto, facendosi habitus, segno esteriore visibile di una realizzazione interiore profonda, tale da imprimere alla materia un'impronta purificata, foriera di bellezza, che s'incarna con grazia fino a giungere agli oggetti più comuni, strappati all'imperio della mera utilità pratica e commerciale. Nell'epoca dell'indefinita riproducibilità tecnica delle cose, che sommergono una massa umana di moderni schiavi condannati a un lavoro opaco, disanimato, atomizzato ed automatizzato, l'utilizzo sapiente delle mani – e ciò che esso presuppone, nella tradizione artigiana di ciascun popolo – resta come un filo d'Arianna: ci lega a un passato apparentemente lontanissimo, indicandoci forse una via d'uscita dal moderno labirinto costruito dall'homo oeconomicus, ridotto anch'esso, a cosa tra le cose. Pagina Web Pagina Web

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